venerdì 20 aprile 2018

Apedario ha 5 anni



Apedario compie oggi 5 anni, ed è significativo che a ricordarmelo sia stata Elisabetta Cremaschi, una delle persone più importanti per questa mia "vita altra"; il suo contributo sarà presto visibile in una pubblicazione che attendo, attendiamo, davvero con trepidazione.


Apedario ha cinque anni. È piccolo, ma per me, per tanti anni maestra di scuola dell’infanzia, 5 anni è l’età dei grandi. E così mi piace pensare che Apedario sia grande come ciò che ha permesso si realizzasse nella mia vita. 
Ci sono davvero molti motivi per cui essergli grata: le molte persone che senza di esso non avrei conosciuto, in molti casi solo virtualmente, in altri anche di persona, e da cui continuo ad imparare; la possibilità, e la spinta, a riflettere sulle parole e sulle immagini, coinvolgendo le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi, in questo inesausto percorso di ricerca di senso e bellezza; le diverse opportunità di mettermi in gioco, come docente appassionata di albi e letteratura, e di incontrare così splendidi collegh*, con cui condividere momenti davvero imperdibili; poter guardare negli occhi autori di fama mondiale, ricambiare un sorriso, ascoltarne la voce. Tutto questo, grazie al blog.

Così ho pensato he non potesse esserci modo migliore, per festeggiare, che scegliere un libro, e la relativa attività, tra i più significativi per ogni anno della sua vita, ovvero per ogni anno di scuola vissuto fino ad oggi con le bambine e i bambini.

Aprite i link: sarà il più bel regalo di compleanno che Apedario ed io possiamo ricevere.

Per la 1^, Federico, di Leo Lionni, Babalibri




per la 2^, Lupo Sabbioso L'incontro di Asa Lind e Alessandro Sanna, Boheme 






per la 3^, Di qui non si passa!, di Isabel Minhós Martins e Bernardo P. Carvalho,Topipittori





per la 4^, ABC dei popoli, di Liuna Virardi, Terre di mezzo







per la 5^, Un posto silenzioso, di Luigi Ballerini e Simona Mulazzani, Lapis


mercoledì 18 aprile 2018

Prendersi cura, e poi lasciar andare


Oggi è l’ultimo giorno, di questi cinque anni, dedicato ai colloqui individuali. Che, lo devo dire, a volte non sono facili, altre ti procurano dei veri e propri dolori, ma per la maggior parte sono davvero la prova che famiglie e insegnanti costruiscono insieme, e insieme accompagnano, sostengono, lasciano andare.

Ed è proprio sul necessario lasciar andare -avendo avuto cura, prima, di aver aiutato ogni bambina e ogni bambina a padroneggiare gli strumenti necessari per camminare in autonomia- che mi pare bello, e giusto, riprendere in mano il libro che più di ogni altro, in questi anni, mi sembra parlare di questo ad ogni adulto che dei bambini si prenda cura.

Prendersi cura, e poi lasciare andare. Credo che il compito di ogni adulto, nei confronti dell'infanzia, stia tutto in queste parole.






Scrivevo, ormai quasi tre anni fa:

Lunedì 7 settembre 2015

Apro il libro. La risguardia è ordine e delicatezza: gli alberi si stagliano puliti sul fondo chiaro, dove i sentieri formano una trama semplice e garbata.
Questa sobrietà, questa pulizia, continuano anche su colophon e frontespizio, dove nuovi alberi, di forme e colori diversi, sono al centro della scena, mentre autori ed editore sembrano ritrarsi per far spazio all'immagine.

Giro pagina, e mi ritrovo, attratta come sono dalle parole e dalla forma che assumono sulla pagina quanto dalle immagini, già rapita dal susseguirsi di due parole: 

E dentro

C'era una volta l'infinito.
E dentro l'infinito c'era una galassia.
E dentro la galassia c'era un pianeta.
E dentro il pianeta c'era un continente.
E dentro il continente c'era uno stato.
E dentro lo stato c'era un paese.
E dentro il paese c'era una collina.
E sopra la collina c'era un castello.
E in quel castello c'era una stanza.
E in quella stanza c'era un principe.

Principe Beniamino.



Immagino i visi e le espressioni dei bambini mentre leggerò queste righe, e prendo nota del fatto che, mentre leggevo, molti pensieri diversi mi hanno attraversato la mente: ma quello che non devo assolutamente dimenticare è che questo incipit è perfetto per riprendere con i miei bambini la grammatica, e con essa la distinzione tra articoli indeterminativi e determinativi.

Cosa c'è di più chiaro di l'infinito che contiene una galassia, una tra le tante?

Ma poi, una galassia diventa la galassia, perché è proprio quella che ci interessa, una sola tra le tante, e dentro la galassia c'è un pianeta, che nel verso successivo (verso, certo, perché questa prima pagina non è nient'altro che poesia, o filastrocca, in ogni caso un luogo in cui il ritmo e il suono delle parole concorrono in modo essenziale al loro significato) diventa a sua volta, ormai è chiaro, il pianeta. E così via.
E poi dentro, sopra, quello, quella. E la corretta scrittura di c'era.
E Principe Beniamino, alla fine della pagina, un verso solitario, diviso dalla strofa precedente, e senza articolo, neppure quello determinativo – però con due maiuscole (vi ricordate, bambini, quando si usano le maiuscole?).

La grammatica, dicevo, certo. Perché la amo, perché dà forma e significato alla parola. Perché, per fortuna o purtroppo, raramente dimentico di essere una maestra, e da maestra ho sempre fatto grammatica a partire dai libri e dai testi letti in classe, senza mai dividere la riflessione linguistica dalla lettura e dalla scrittura, e possibilmente su un unico quaderno, perché tutto sia unito, collegato.

Ma il libro prosegue, e le parole mi hanno distolto dall'immagine successiva: solo ora forse posso capire perché la ricerca di quella speciale tonalità di rosso sia stata così complessa.
Giro nuovamente pagina, ed eccolo, Principe Beniamino.

Anzi:

C'era una volta Beniamino.

Un bambino, un bambino come tutti, anche se nato da una Reginamamma e un Repapà. Un bambino fortunato, non tanto perché Principe, ma perché potrà crescere e imparare “[...] le cose. E le parole musica delle cose, e le parole che fanno le cose.”
Non posso impedirlo: penso ai tanti, troppi bambini che non potranno crescere, non potranno imparare. A quelli che hanno avuto almeno l'onore del ricordo, e del cordoglio del mondo, perché divenuti simbolo, e ai tanti, troppi, di cui non conosceremo mai il nome.

Beniamino cresce, e con le parole crea il mondo: il suo e quello dei suoi genitori, che per la felicità cavalcano, danzano, piantano un albero d'olivo, si tuffano



fanno posto nel lettone, spalancano porte, ridono. E poi, quando Beniamino è pronto, dopo una festa grande quanto quella per la sua nascita, Reginamamma e Repapà di fermano e...

In quell'istante che era dentro un minuto.
E in quel minuto che era dentro un'ora.
E in quell'ora che era dentro un giorno.
[...]”
 
Non posso proprio svelarvi il finale: posso solo dirvi che è il finale perfetto.

martedì 10 aprile 2018

Non solo albi, ovvero Io sono, io sono, io sono


Il taccuino di X mi interroga, e mi chiama in causa.

“Faccio fatica a controllarmi quando mi dicono di scrivere di più, ma se nella mia testa ho solo quello, cosa posso farci?”

Quel “mi dicono” in realtà è una terza persona singolare, e ha un soggetto preciso, benché sottinteso. Quel soggetto è lei, e sono io.

Sono io che le chiedo, quasi ogni volta, prima semplicemente a voce, da qualche tempo anche scrivendole, di mettere sulla carta tutto quel che pensa, o sente, perché ci tengo davvero a conoscerlo. Sono io che insisto, perché intravvedo, dietro alle altre sue competenze, anche una ricchezza che lei ancora non sa, o non vuole svelare.

Anche Y scrive:

“Non riesco a controllarmi quando sono arrabbiato, a scuola quando mi arrabbio inizio a fare i commenti per fare arrabbiare la maestra.”




È vero: Y spesso mi provoca con i suoi continui commenti. Interviene di frequente senza alzare la mano, nonostante continui a ricordargli che sono in 28, e se tutti facessero come lui sarebbe davvero il caos. Lo fa di proposito. Non lo dico io. Lo dice quel per che ha usato, credo in modo assolutamente consapevole. Lo fa di proposito, anche se riconosce da parte sua una mancanza di controllo.

E anche qui, mi chiedo, perché mi fa arrabbiare, se so che è solo, da parte sua, una richiesta di attenzione, di ascolto? Un modo per dirmi “Ci sono, dammi tempo, dammi spazio”?


Ancora una volta, è la letteratura a permettere alle ragazze e ai ragazzi di usare la scrittura in modo personale, autentico, critico, nei confronti di se stessi e degli altri. 
Questa volta, però, è un brano da un libro per grandi, uno tra quelli che ho letto durante le vacanze e che scelgo di leggere loro, ad alta voce, per riconoscere insieme a loro che a volte è proprio difficile, se non impossibile, mantenere il controllo.

“È ancora una bambina difficile?” chiedevano i parenti con aria diffidente. Mezz’ora in mia compagnia e avevano la risposta.
“Non la provocate” raccomandavano i miei genitori alle mie sorelle, e a me dicevano: “Devi imparare a controllarti”.
Ci provavo. Ricordo di averci provato. Ricordo di aver pensato che non dovevo innervosirmi, non dovevo perdere la calma, dovevo soprattutto mantenere il controllo. Mi guardavo allo specchio e atteggiavo il viso a un sorriso pacato ripetendo la parola docile tra me e me. Dovevo averla letta in un libro. Era così che volevo essere, che sapevo di dover essere. Era così che erano i bravi bambini, docili. Poi, però, mi dicevano di mettermi un certo maglione di un oltraggioso color senape, con il collo che pizzicava e mi faceva prudere la pelle in modo insopportabile, e per cena c’erano di nuovo patate lesse, quanto odiavo l’esterno farinoso e l’interno duro e pieno di amido. Un bicchiere di latte mi aspettava al mio posto ed ero terrorizzata all’idea di berlo, con quella consistenza viscida e sinistra che mi foderava l’esofago, le spirali di schiuma giallastra in superficie, le bollicine perlacee sul bordo. Mentre pensavo a tutte queste cose, magari succedeva un fatto trascurabile, innocuo – un commento o uno sguardo di mia sorella, un piede che urtava il mio mentre cercavo di leggere, una pagina di compiti di matematica che sembrava infinita, incomprensibile e soporifera – e scattavo. Sentivo esplodere qualcosa nel petto, mi affluiva un gran calore alla testa, strillavo all’improvviso, forse pestavo i piedi. Controllo perso. Altro che docile.

Maggie O’Farrell, Io sono, io sono, io sono, Guanda




“Io non riesco a controllarmi quando cresco, perché sento che il mio carattere cambia e divento più cattiva”
“Non riesco a controllarmi quando mi arrabbia, non si nota ma se mi arrabbio spaccherei il banco”



 





Com'è difficile, a volte, l'infanzia. Com'è faticosa, per alcuni, con le richieste adulte, a volte incomprensibili, spesso impossibili.

Mi chiedo, ancora una volta, perché io sia così attratta da questo periodo della vita. Non può essere solo per il lavoro che faccio.

Perché, dei libri che leggo, spesso mi rimane impresso ciò che all'infanzia appartiene, e pertiene, ciò di cui le siamo debitori, o creditori?

Come sempre, sono ferma alle domande. Le risposte, chissà se arriveranno.
Una cosa, però, penso di saperla: la scrittura, spesso, è la cura.


martedì 3 aprile 2018

In mezzo, ovvero la naturale condizione dell'esistere

IN MEZZO

Quelli piccoli sanno
di minestrina
astucci in plastica
gomma
da cancellare
e di sono come
tu mi vuoi

Quelli grandi sanno
di sudore
scarpe da ginnastica
gomma 
da masticare
e di non saremo mai
come voi

E in mezzo
in bilico
tra prima e poi
   ci siamo noi.

Chiara Carminati, {Viaggia verso} poesie nelle tasche dei jeans, Bompiani





La prima volta che ho letto questa poesia, tratta dal nuovo, bellissimo libro di Chiara Carminati, non ho potuto fare a meno, nella logica di maestra di quinta da cui sono completamente pervasa, che quei piccoli con l’odore di minestrina, astucci in plastica e gomma da cancellare fossero i primini (anche se il “sono come tu mi vuoi” avrebbe dovuto fin da subito farmi riflettere); mentre i grandi sono, indubitabilmente, molti dei nostri di quinta.

Solo ad una nuova rilettura più attenta, questa mattina, ho pensato che i piccoli sono più piccoli: non tanto per gli odori, quanto, invece, proprio per quell’adesione e conformazione quasi totale ai desideri e alle aspettative dell’adulto. Quei desideri e quelle aspettative da cui è necessario affrancarsi, a cui ribellarsi, in una stagione che, a dispetto di quelle tradizionali, inizia sempre prima, sempre troppo presto rispetto alla maturità dei corpi, dei pensieri, dei sentimenti.

E in mezzo?

In mezzo “ci siamo noi”. E c’è uno spazio, prima dell’inizio del verso. Uno spazio piccolo, tre battute appena, credo. Ma è uno spazio al cui interno si svolge tutta una crescita, un infinito passaggio, in cui ci tocca, adulti, essere presenza viva e attenta, seppur discreta.

Compito difficile, ma quanto mai necessario. Siamo tutti, sempre, in mezzo, ovvero nella naturale condizione dell'esistere.